In questo articolo, scritto dalla Psicologa Psicoterapeuta Tiziana Campanella, analizzeremo come la corsa può rappresentare una crescita personale, insegnando a non temere il dolore, ma la passione ossessiva ne minaccia piacere e performance.
La corsa: impegno e costanza
Ammettiamolo, correre non è certo un’attività facile e per tutti, richiede una certa tenacia che va ben aldilà del risultato raggiunto o del traguardo perseguito. È davvero una partita con se stessi a carte scoperte in cui, in fin dei conti, è importante la capacità di non mollare mai durante il processo.
D’altronde, conduciamo una vita a velocità record, cercando di programmare e orchestrare attività quotidiane, eventi e doveri sempre a ritmi serrati e frenetici, perché dovremmo scegliere o, continuare a scegliere, di investire il nostro tempo in una lunga ed estenuante corsa?
Viviamo in una società in cui tutto sembra semplice, immediato, perfetto, entro una dimensione liquida ed effimera in cui tutto appare facilmente raggiungibile, con la tendenza deliberata di cambiare oggetto del nostro desiderio o del nostro panorama motivazionale, quando, alla prima occasione, qualcosa si mette male.
In effetti, nello scenario narcisista in cui siamo immersi, si assiste sempre più a un compulsivo uso, abuso e sostituzione di oggetti, attività e azioni in cui non vi è spazio per la noia, lo sforzo, il sacrificio. In poche parole non c’è posto per il duro e lungo impegno che non porti ad un risultato efficace e valido nell’immediato.

Imparare a fallire
Secondo il 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale del nostro Paese nel 2022, l’89,7% della popolazione italiana dichiara di provare tristezza per le crisi dell’ultimo triennio e il 54,1% ha la forte tendenza a restare in atteggiamento passivo.
La malinconia, dunque, domina la quotidianità umana odierna, mentre il proprio “Io” viene sconfitto nel tentativo di governare il destino, con una tendenza alla passività. Inoltre quello che emerge sempre di più è una difficoltà, soprattutto nei giovani, di imparare a fallire.
Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Samuel Beckett
Crescita personale
In una società altamente performante, non c’è spazio per l’errore. La storia sportiva è ricca di racconti di persone che non si sono abbattute nonostante gli insuccessi, anzi, proprio per il dolore, l’ansia e la frustrazione provati, si sono rialzati. E sono ripartiti, più convinti di prima.
La verità è che gli adolescenti di oggi, e non solo, risultano sprovvisti di quegli strumenti per rielaborare la sconfitta, oppure un lutto, o una perdita. E questo è possibile osservarlo anche nel portare a termine e sostenere un semplice impegno con costanza, poiché molto spesso, alla prima avversità si lascia perdere.
Si abbandona il campo davanti alla prima difficoltà. Si diffonde così la tendenza a evitare l’ostacolo. Tra una strada in salita e una in discesa si sceglie sempre quella più facile da percorrere, questo perché si preferisce dare priorità a un riscontro pratico, facile, immediato ma anche illusorio e momentaneo.
A volte ci insegna più una partita in cui si è perso, che quella in cui si è vinto. Naturalmente questo è vero anche nella vita. Questo non vale solo per i giovani. Siamo immersi in una società che ha una tendenza a ovattare il dolore, allontanarlo, negarlo. Operando così un taglio o peggio, anestetizzandolo, quando, prima o poi, nel nostro cammino, non ne potremo fare a meno di incontrarlo, ci coglierà completamente impreparati.

Sofferenza e crescita
Cosa c’entra la corsa con la crescita personale? Proviamo a porci delle domande: quanto male posso sopportare? Qual è la mia soglia del dolore? Cosa faccio davanti a un dolore? Fin dove posso spingermi?
La corsa ha molto a che fare con il dolore e la capacità di sentire, sostenere e padroneggiare la sofferenza fisica e mentale. Perché il dolore serve. Il dolore, anche se fa male, fa crescere, porta ad evolverti in un certo senso. E non si può sempre dire che sia una cosa negativa, anzi è vero il contrario. Il dolore può trasformarsi in qualcosa di propositivo.
È interessante sottolineare come, alcune cadute nella vita, proprio perché non si hanno le competenze emotive per affrontarle, vengano troppo spesso ingigantite e causino ulteriore disagio.
Imparare a gestire e poi anche ad apprezzare, dolore e disagio, è l’allenamento più importante e prezioso, perché contribuisce a sviluppare e irrobustire quella capacità fondamentale per affrontare qualunque aspetto della vita, che si chiama resilienza.
La sofferenza è parte della vita, se facciamo di tutto per evitarla o negarla, quando ci ritroveremo, presto o tardi, faccia a faccia, non avremo sviluppato le competenze non solo per affrontarla, ma neanche per trarne tutto ciò che di utile ne deriva dall’attraversarla.
Dando per scontato che oggi ciò che conta sia l’immagine perfetta di ciò che siamo o di ciò che vorremmo essere, si finisce per tagliare fuori la fetta più importante delle emozioni. È interessante a tal proposito, sottolineare come, contrariamente a quel che uno immagina, il perfezionismo possa essere controproducente nella corsa.

Il perfezionismo nella corsa
Secondo un recente studio del 2022 pubblicato sul Journal of Sport Science and Medicine, il perfezionismo modera gli effetti della realizzazione dell’obiettivo sull’umore post-gara nei corridori amatoriali, ovvero viene evidenziato proprio come il perfezionismo influenzi il modo in cui gli atleti valutano le loro prestazioni.
Dallo studio, condotto su 152 corridori dilettanti (75 femminine e 80 maschi) valutati su una gara competitiva di 10 km, emerge come un maggior piacere dopo la corsa sia correlato con minori preoccupazioni perfezionistiche.
L’attitudine di non sentirsi mai grati con se stessi riesce a creare quell’effetto boomerang che può anche favorire, a lungo andare, l’abbandono della corsa. Essere eccessivamente ossessionati o perfezionisti non solo riduce il piacere, ma influisce negativamente sulla stessa performance. Gli autori stessi dello studio sottolineano inoltre come le conseguenze negative del perfezionismo possono essere osservate dalla mancanza di reazioni positive a eventi positivi.
Un altro studio pubblicato sull’International Journal of Environmental Research and Public Health, condotto su 246 corridori amatoriali olandesi, afferma che se la corsa diventa un’attività svolta con passione ossessiva può portare a maggior rischi di infortuni, perché essendo “mentalmente” occupati a rincorrere l’idea irrealistica di sé, si perde di vista la consapevolezza autentica con sé, cioè quella consapevolezza corporea che permette di individuare le necessità realistiche del corpo, come quella di recupero.
I limiti della passione ossessiva
Il modello dualistico definisce la passione come quell’inclinazione verso un’attività considerata importante in cui investire tempo ed energie considerevoli: la passione armoniosa (HP) è caratterizzata da un forte desiderio di impegnarsi liberamente nell’attività passionale, mentre la passione ossessiva (OP) travolge la propria attenzione portando ad un’interiorizzazione eccessivamente controllata di un’attività nella propria identità.
Si presume inoltre che l’OP porti a una rigida persistenza: si arriva ad essere completamente controllati dall’attività appassionata a scapito di altre attività. I corridori con OP hanno un bisogno incontrollabile di impegnarsi nella corsa e persisteranno nella corsa nonostante il corpo e la mente segnalino che il recupero è necessario.
Pertanto, i corridori ossessivamente appassionati ignoreranno il loro bisogno di recupero e, quindi, saranno meno in grado di staccarsi mentalmente dalla corsa e di recuperare mentalmente dopo la corsa. Chi è appassionato in modo armonioso riscontra, quindi, un numero di lesioni più basso di chi lo è in modo ossessivo.

Conclusioni
L’allenamento volto a conoscere realmente e progressivamente se stessi e a convivere con i propri limiti, inadeguatezze e, a volte fallimenti, porta ad accettare l’imperfezione. Dunque, chi siamo davvero. E la corsa esige sempre, prima o poi, quest’atto di onestà con noi stessi, che ci piaccia oppure no, che noi lo vogliamo oppure no.
Se quindi da un lato è vero che non bisogna chiedere troppo a se stessi, in termini ossessivi, è altrettanto vero che la corsa allena a tollerare sempre di più, volta dopo volta, dolore e disagio, allena la capacità di impegnarsi assiduamente e costantemente, di cedere e riposarsi quando è necessario, ma di spronarsi e rialzarsi per tentare ancora.
Soprattutto la corsa ha un grande potere, una grande opportunità, quella davvero di riuscire ad attraversare il dolore, senza negarlo, senza rifiutarlo, senza minimizzarlo, e aiuta così ad affrontare altre sfide della vita che s’incontrano su questa stessa radice.
La corsa vi riporta a voi sempre, ma lo fa tramite la sfumatura della sofferenza. Il duro lavoro, la disciplina e soprattutto la pazienza sono i veri promotori della corsa, e se lo sono nella corsa lo sono anche nella vita.
Se non puoi volare, allora corri. Se non puoi correre, cammina. Se non puoi camminare, allora gattona, ma qualsiasi cosa fai, devi continuare ad andare avanti.
Martin Luther King
Articolo scritto dalla Dott.ssa Tiziana Campanella – psicologa psicoterapeuta individuale e di gruppo, specializzata in analisi Bioenergetica, tecniche psico-corporee, regolazione delle emozioni, rilassamento progressivo, conduttrice di classi di bioenergetica volta alla gestione delle energie e alla riduzione dello stress.
Responsabile dei contenuti del blog salutementale.net e coordinatrice della Redazione della Salute Mentale “Centro Studi e Documentazione L.Attenasio-V.Marzi” del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2.
Continuate a visitare la sezione Mental Coaching per nuovi ed interessanti articoli!
Buona lettura!